Questioni di lana caprina

Premessa doverosa. Non mi piace boicottare: la trovo una pratica odiosa, davvero antipatica, radicale. Ma al contempo sono convinta che la più piccola delle nostre azioni ha significato e dobbiamo essere coscienti delle conseguenze delle nostre scelte.


Nel numero di aprile 2018 della rivista Le Scienze c'è un articolo molto interessante che illustra il progetto di un biologo statunitense, il quale cerca di convincere gli allevatori della Mongolia ad adottare un cane un tempo usato per la difesa delle greggi, il Bankhar.

L'idea è che tale cane opportunamente addestrato riduce sensibilmente le perdite dei capi di bestiame (prede naturali di felini in pericolo di estinzione, spesso oggetto di vendette e ritorsioni) e quindi renderebbe inutile una pratica che sta portando all'impoverimento e alla desertificazione della Mongolia, ovvero l'adozione di greggi sempre più numerose e sempre meno diversificate.

Il problema, infatti, è che i nomadi che hanno sempre allevato mandrie miste di cammelli, capre, cavalli, pecore, buoi e yak da qualche decennio a questa parte hanno un numero sempre più grande di capre produttrici di cachemire, più dannose per il suolo a causa dei loro zoccoli acuminati che incidono sulla crosta biologica che previene l'erosione del suolo (un sesto del territorio della Mongolia è deserto, una superficie triplicata in trent'anni).

Ed allora mi chiedo: a chi vendono tutto questo cachemire?
I più grandi produttori di cachemire mondiali sono Iran, Mongolia, Tibet e Afghanistan, mentre solo una piccola parte proviene dal Kashmir, regione pakistana che dà il nome alla capra e alla lana.
In Italia la lana viene lavorata soprattutto nel distretto tessile del biellese e della Valsesia, e sembra che la migliore qualità (che si riconosce per la lunghezza delle fibre) solitamente provenga dalla Mongolia.

Ecco. L'importante è saperlo.

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